lunedì 11 maggio 2009

prezzemolo e caffè

guardo l'orologio appeso ai muri freschi di una vecchia cucina, stupita dal vederne inabitualmente le lancette non oltrepassare mezzogiorno. non è un piccione sperso a svegliarmi, non è nemmeno un frollon intrappolato dietro al finestra a non lasciarmi dormire: lo sbattere di ali ed il tubare agitato non è nulla contro il desiderio e la voglia, l'eccitazione alla ricerca di una via di uscita non ha nulla da invidiare a quella causata dal mio sangue drogato. e mi alzo alle sette, le ombre lunghe di un mattino che comincia, i papaveri nella gramigna (e perchè un coqlicot non è del pavot? sperare nella metamorfosi di foglie di lattuga), il gelsomino si colora di giallo al nostro passaggio,j'ai falli partir, seduta su un furgone dalla carrozzeria corrosa dalla salsedine e inoccuranza. il cielo è azzurro, altrimenti nemmeno mi sarei alzata, intrappolandolo tra baci e carezze, gemiti e piacere. e non mi stupisce la mia incapacità a legarmi al polso lo scorrere del tempo (ma in ogni cucina alzo lo sguardo), ça m'étonne pas di oppormi alle teorie evoluzioniste, nell'antropologia come nella vita delle volte due giorni sono più lunghi di due settimane, senza nessun rapporto di necessaria linearità dell'evoluzione e del tempo. ed è un'ondeggiante piacevole lucidità (come la lucidità possa essere fluttuante come un'allucinazione occorre chiederlo a chi ha sintetizzato) a riempirmi gli occhi e le gambe mai stanche, la bocca un po' asciutta ma non abbastanza secca per non leccarci e sbavarci vicendevolmente piacere ed orgasmi. ritmi africani e rap di bamako accompagnano il viaggio, lungo la superstrada mare, raffinerie e rocce bianche e sembra strano di finire su un letto con tanto di doghe (e non sono pallet ma proprio liste di legno) a provare a rimbalzare sul materasso, in qualche metro quadro dove non so se vivere o no. lungo le colline di chaine vert e castagni, una pista dissestata ed un mare di mercos, ed è un chapiton rouge e noire a fare da sfondo dal vino bianco che sale e facce quasi dimenticate che si ricordano di me, ballando abbracciate. e finisco a fare l'amore senza coscienza, intrappolata dal piacere sotto le coperte, con una scarpa ancora allacciata ed un piede nudo intrecciato. l'alba si legge sulle facce dechirées, il nero che cola dagli occhi e sulle mani, gli occhi dalle pupille milleforme, la voce impastata o senza decibel. alla ricerca di una caffè grappa o di una trace per iniziare una giornata che non è ancora finita. i cani ed i dreads ad impastarsi con il fango, gli accordeons e la tecno, i biscotti ed il the corretto vodka. e si riprende la strada, mangiando fiori di acacia ed una mela, polipo e sardine in scatola, mozzarella versata sul finestrino. il sole del pomeriggio ad illuminare la linea tratteggiata nell'asfalto caldo, la ginestra ed i fiori viola sul bordo del goudron a sfilare veloci acconto al petrolio ed al mare. ed un giardino con gente e divani con la mousse che esce, bloody mary e, su un tavolo, carta di credito e paille tolgono la dipendenza dal cibo e dal sonno, senza parlare troppo questa volta, ma energia a sufficienza per lasciarsi andare nel pogo e nella danza frenetica. dietro un bar saldato con amore ed attenzione (i riflessi della scintilla ancora nella coda dell'occhio), a servire punch e birre premier prix e a continuare ad aspirare da un cd. la tenerezza e la douceur mi colgono all' improvviso, dopo aver lasciato sulla lavagna un messaggio di gesso bianco, i semafori che brillano ed i catarinfrangenti che luccicano nel tepore di una notte che non è ancora estate. e le case si rimpiccioliscono, roccia e colline prima di arrivare al mare ventoso e troppo fresco per non gettarsi ancora una volta in un melange di corpi e sensazioni amplificate dalle anfe. e intanto il cielo si schiarisce, dietro le isole di calcare e bianco, la linea sorprendentemente dritta delle onde. e vagare in quello che non è un piccolo villaggio di pescatori (ma lo sembra) alla ricerca di una spiaggia senza ombra di randonneur della domenica e detriti di un passato industriale. e ritornare, senza ancora fame ma quasi voglia di dormire (anche se è più la stanchezza che la voglia di chiudere gli occhi a farsi sentire), parlando sui gradini sotto un cielo grigio blu, con due baguettes calde e qualche pain o chocolat per chi si sveglia (e non come noi, al massimo si è eccitato sui sedili di un'auto in faccia ad un mediterraneo cangiante). e cercare di dormire, ma ricadere nella lussuria, spelando qualche zucchina e, quando la fame risale, preparare un gratin pestando le spezie e raccogliendo le erbe (cumino e ginepro, coriandolo, rosmarino e peperoncino, aglio, origano e finocchietto). addormentarsi davanti ad un film in bianco e nero, con l'eco dell'accento prolo parigino nelle orecchie e svegliarsi con un cellulare senza voglia di dividersi (e sono io questa volta che resto), e, senza aver capito la condanna della distanza, mangio una piccola fragola bitorzoluta che spunta da un vaso in giardino (ma non è per questo chesto qui, pur senza averlo mai vissuto, un appartamento a due fa più recinto che nido d'amore, voglia di gridare tra i granelli di sabbia ed i muri taggati di una casa occupata).

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