giovedì 22 dicembre 2011

una prigione in fiamme non riscalda solo il cuore


un freddo immaginario mi ghiaccia la testa, mentre degli spifferi taglienti si infiltrano tra il mio naso e il cappuccio del sacco a pelo. ma mi sembra un prezzo troppo alto da pagare per non vedere i pacchetti di pepito accartocciati accanto al posacenere straboccante, anche se, con le lacrime a fior di pelle, non mi smuovo, impedita dalle babbucce troppo ingombranti. e voci al di la di un filo che richiedono contratti indeterminati e cifre esorbitanti per poter abitare in cinquanta metri quadri senza fidanzati, vorrei vederli al nostro posto questi adulti sicuri di se' che hanno macinato la loro ricchezza in periodo di crescita economica. vorrei vederli, oggi proprietari di case acquistate in una bolla immobiliare, a faticare dietro l'ennesimo contratto che finisce, a farsi insultare per chiedere il dieci per cento dovuto sul contratto, a sperare in qualche ora in più alla settimana, a sentirsi dire, alternativamente, che non si ha esperienza o si ha troppa formazione, che si ruba il posto a qualcun altro che ne ha più bisogno, solo perché ci si presenta con una laurea per fare lo spazzino. vorrei vederli oggi ben difesi dalle barricate di un credito concesso quando la grecia era sinonimo di classicità e nessuno temeva per il crollare del mondo intero. vorrei vederli a sentirsi rispondere che vogliono garanzie sull'affitto di un appartamento con cifre roboanti su una busta paga, mentre il padrone ti spinge perché la metà della tua paga sia in nero.
e poi si lamentano perché inciampano nei cadaveri irrigiditi da un'ipotermia letale che costellano le strade sotto le decorazioni di natale. stelle brillanti che sprecano uranio e surriscaldamento per illuminare le tristi scene di vita quotidiana. vetrine che ti istigano a volere ciò che mai potrai permetterti, ma soprattutto di cui non hai nessunissimo bisogno. gli sguardi sprezzanti di chi esce dall'estetista (pagato con l'affitto ricevuto dalle tasche di qualcuno come te) sulle tue sopracciglia irregolari e forse un po' troppo folte, gli occhi ripieni di sdegno nel guardare i miei capelli un po' troppo rovinati da shampoo di bassa qualità, le mie unghie smangiucchiate che mai hanno visto una manicure professionista. ma non ho nessuna voglia di patinarmi la faccia con fotoritocchi fittizi e inutili, le ciglia rimmellate non abbelliscono ciò che passa davanti agli occhi. eh, sì voglio distruggere questo decoro di finto cartone in forma di sbarre e vedere la realtà che vi si cela dietro. e nel frattempo ho freddo ai piedi come se dovesse nevicare, gli occhi pesanti, una tristezza vaga e controproducente che mi inchioda ad un'insoddisfazione cronica senza darmi l'energia perché il sangue mi bolla nelle vene e mi porti a esprimere con gioia tutto il mio odio.

foto di Valentina Perniciaro, "passeggiando per il ghetto a testa in su"

giovedì 3 novembre 2011

si j'en crois à ma montre


almeno adesso è chiaro.
lampante, evidente, lapalissiano e tautologico, esplicito, ben visibile, salt'all'occhio, senza dubbio.
o, almeno tanto quanto la tristezza fredda che mi permea senza disperazione, solo rimpianti e voglia di abbattere un'inerzia contro cui pensavo di aver già combattuto la mia battaglia. sto forse meno male con cinica indifferenza di fronte all'evidenza. perchè per una botta di endorfine venderei anche mia madre, ma soprattutto ho sveduto troppo, inscatolandomi in un insaccato.
e solo ora sto iniziando a capire che voglio uscire da questo beautycase di plasticaccia sgalfa e insipida.
non ci sono ultimatum, liste di punti da correggere e altre stronzate simili, solo il constatare che io non posso rientrare senza nemmeno una parola e nessuna voglia di saltarcisi addosso. e non fosse il coro di uno stadio che rimbomba incitamenti con assai poche percentuali di incidenza sul reale, ma ci si può sempre credere...ci si può intorbidire i neuroni a colpi di film gore o affogare negli acuti di un flessibile o ancora piallarsi sinapsi e contatti umani su un ventiquattro pollici. se devo scegliere come non pensare, che almeno sia con le mani sporche di terra e ruggine, la pelle dura e rugosa per gli utensili, nel naso profumo di sementi e saldatura. e non un male alla testa tra gli occhi e il cervello per non aver saputo resistere ad un inutile sudo in più che non mi lascia nemmeno dormire e ben poco da raccontare. e non traccio linee bianche , fin troppo semplicemente mi spingo verso ciò che mi manca, foss'anche per ritrovarmi dietro ad un muro, tra la valeriana violetta, la ghiaia bianca ed un pianto che non riesco a fermare. perchè, se mai non l'avessi capito non merita mica, se avessi continuato sulla stessa strada avrei perso molto meno di quello che ho lasciato. ma basta consigli al cazzoe stare ad arrovellarmi senza possibilità di fuggire da ciò che è stato. non mi resta che iniziare a tessere. adesso.


foto di fabrizio carta http://www.flickr.com/photos/zodiark/

martedì 25 ottobre 2011

IDE ce n'est pas des IDEE


la pioggia scroscia, i pomodorini inscheletriscono sotto una lampadina economica, l'hd gracchia senza speranze di ripresa, il tempo passa senza che io mi sia decisa. ho troppe affermazioni da fare. prendere le briglia di un asino che ho rinunciato a capire. per poter smettere di fantasticare inconcludentemente rinchiusa in una scatoletta di sardine marce. e iniziare davvero a girare la terra con la mia roulotte à pizza, a vedere altre latitudini e paesaggi, à tricoter un po' di più i fili di quei legami che da troppo tempo ho abbandonato fuori dalla parentesi del mio essere adesso.
tristezza che ingolfa la mia capacità di ripresa e reazione. disperatamente molle come una maionese non riuscita. delle meringhe fallite mi guardano dal basso della loro posizione e mi ci rispecchio dentro. bianco candore che acceca come lame arrugginite. Ho bisogno di cambiare e non di dipingere con nuove inutili nouances. un vecchio slogan mi rimbomba in testa, eco di uno striscione appeso sulle mura di un cpt in cantiere: "la prigione non la si colora, la si distrugge". ed è facile amare il conforto sicuro di formule politiche chiare che illuminano il mondo e ne delineano chiaramente le ombre. e pur rifuggendo scientificamente e ideologicamente la cuccia dell'identità, è troppo facile e piacevole bagnarcisici dentro. del resto, tautologicamente, ne si fa parte!

sabato 10 settembre 2011

lavori dorsali [1] e righe

taglio senza mai cucire gli steli secchi di grappi di acini, in giorni dall'alba grigia e mattini che, nonostante la nausea e il malessere di uno sbocco sulla cassetta, riescono a trascorrere (vomito saliva disgustata).
passo da un pomeriggio troppo azzurro e lungo che si snoda lentamente senza doccia ne' energia ad una notte che scorre limpida in un circolo privato di denari e poteri minables da cui mi allontano con piacere inesorabile. visi sconosciuti con cui parlare di questioni che non abbiamo nemmeno voglia di affrontare, per allontanarle quasi definitivamente (come se fosse possibile). acido lattico e muscoli stanchi, cigolio di articolazioni e cartilagini (mentre le sinapsi stridono come unghie affilate sull'ardoise).
e i mezzi capi e i padroni a cui vendo la mia salute al posto di sperperarla tranquilla in un benessere effimero, li coltiverei in un campo dalle file ordinate, arrosandoli di urina e diarrea, legandoli a doppio nodo con un filo di ferro arrugginito e raccogliendoli con un sécateur électrique, per non stancarmi le mani con l'ironia ipocrita di chi non ti considera degno nemmeno di una carta igienica ruvida.
sono sicura e decisa, senza sonno ne' affanno, una riga bianca mi indica il cammino (e meno male che non è marrone, il passaggio è già abbastanza tortuoso).

[1] erri de luca in "Aceto, arcobaleno", con la cruda realtà della vita dura nella penna, corregge un lessema assai impreciso. "[...]lavoro manuale, anche se il termine non è esatto, non è nelle mani la fatica. Preferisco chiamarlo lavoro dorsale, è lì che si accumula lo sforzo. Alla sera nel letto risento sulle costole i quintali che mi sono passati addosso. Le mani non penano nel lavoro, ma una schiena che è rimasta china o sotto carico tutto il giorno è solo un fascio di nervi indolenziti". De Luca, Erri Aceto, Arcobaleno Universale Economica Feltrinelli, Bologna 2010 pag 21

mercoledì 31 agosto 2011

Heisemberg


Seguo sul filo dei sogni un mondo che sarebbe potuto essere così probabile da avvalorare (in pieno) il principio di indeterminatezza e indeterminazione. A prova dell'improbabilità, il bozzolo di fili taglienti e viscosi che ho tessuto attorno a me.
mi perdo in una pozzanghera illudendomi che sia il mare dei sargassi
e che il mio sos non sia così privo di senso come lo è
e sguazzo senza sapermi coordinare in gesti efficaci per paura che funzionino e che me ne esca senza storie da raccontare

martedì 19 luglio 2011

luglio con il grigio che ti voglio...


nel mio chez moi itinerante mi rannicchio sotto le nuvole di un luglio grigiamente piovoso, nell'umidità delle gocce calde come larmes, coccolo con la lingua un gelato freddo di troppa panna. e mi rodo nel sapere que le temps perdu ne revient plus. e mi chiedo sempre di più che cos'è che sto facendo qui sotto il ticchettio incessante di una pioggiolina insidiosa. respiro e vorrei dormire, ma se corressi sarebbe meglio. per non pensare. e nuotare in una piscina fredda sotto un sole inesistente con il deltoide che punge gelido è come leccare un gelato sotto la pioggia su un gradino d'asfalto che sa di sbocco e piscio di cane, manco fossimo in estate. ho male agli occhi e alla testa, e resto impotente dal non sapermi appopriare di ciò che desidererei, che sia un Izzo che mi parla di aglio e basilico a che sia andarci in quella fottutamente bella città che descrive. perchè, proprio come adesso e tante altre volte, il più difficile è suonarci a quel campanello, senza sapere chi e se ti verrà ad aprire. e mi chiedo se è una scelta consapevole quella di preferirci una solitudine umidiccia, fatta di grasso sulle mani dell'incapacità di saper svitare un bullone. e se la meccanica non fosse nient'altro che una triste metafora di questo periodo in cui non ne voglio sapere di guardarmi davvero e prendere delle cazzo di decisioni. e sento al telefono una voce serena che non mi rassicura per niente, ma da vado prima che arrivi la fliquette di merda!

domenica 10 luglio 2011

se edipo mi facesse una sega


sembra quasi che mi sforzi a non voler dormire, masochistico piacere nel pensare e ricordare sguardi sans-issu che mi sfiorano le dita. e quasi fossi ritornata indietro in una notte su una spiaggia troppo pietrosa, mi perdo negli occhi e nel sorriso di uno sconosciuto che mi fa rimpicciolire con lui. per rendermi conto, all'alba, che non è servito a nulla aspettare se non farmi tendere invano nel possibile dell'adrenalina ovattata, delle carezze non ricevute, dell'ennesimo castello in aria che svanisce nelle nuvole di una nottata fresca e senza stelle. e mi chiedo se sono io che mi faccio spaventare da ciò che potrebbe essere oppure, sempre io, tratteggio immagini che mi invento senza nessuna ragione di essere. e nell'ombra di una luna di plastica fosforescente mi ferisce l'invidia che non è neanche più gelosia di parole di conforto per un malessere che, in maniera egocentricamente oggettiva, mi sembra assai meno motivato del mio. ma io non riesco a parlare, che sia accanto ad un geranio che emana l'aroma chimico di un antizanzare biologico ne' tantomeno laddove devo varcare solchi che l'amarezza, la freddezza e la rigidità hanno graffiato in profondità come rebbi di una forchetta su una pelle tesa. nelle notti di pioggia e lucciole brillanti nonostante l'acqua sulle ali, avrei voluto averla anch'io una voce razionale a leccarmi le lacrime per niente, ma sono sempre restata sola con il mio tachimetro verde ondeggiante, con la mia insaziabile wanderung e troppo orgoglio opprimente. ma decidere e recidere, senza obbligatoriamente dover necessitare d'introspezione, mi ha fatto volere e volare. e mi rendo conto che sono stata bene, con gli occhi e la bocca spalancata davanti ad una ventata di iodio e tiglio. e, agghiacciantemente, ho riscoperto di aver la consapevolezza del vicolo stretto e sporco di sterco nel quale mi imbucavo con delle idee troppo rette e troppo vicine da chi mi è terribilmente distante. eppure sono qui, a farmi stritolare dalla noia dell'incomunicabilità se non in superficie, dal clivage incolmabile di due parti di una barricata diversa. e il peggio è che credono che io sia trasparente, mentre niente è stato così opaco come le mie lacrime adipose.

sabato 18 giugno 2011

j'arracherai vos barbelé avec les dents

paradossale down fatto di ascesa, e che, forse serve a questo toccare il fondo?
perchè parlare, anche se spinti da sinapsi imbottite, fa bene, fa terribilmente bene. perchè in notti vissute, momenti indeterminati in un cielo scuro che sembra non cambiare mai, se riesco a sputare gli ingarbugliati filamenti di pensieri che troppo mi hanno legato quasi fino a soffocarmi stritolandomi, non posso che star meglio, anche se c'è ancora troppo catarro agglutinato che mi coagula nei bronchi e nella testa. seni paranasali graffiati e chimicamente ingombrati mi impediscono di ritornare tra muri troppo bianchi e dritti, un soffitto che sembra abbassarsi ed io in mezzo, incapace ed in ogni caso inutile di stendere le braccia contro la gravità. ansia di solitudine mi illude che ci fosse qualcun altro forse ci riuscirei. ma non serve a niente, nel fango nero vischioso, essere in molti a lottare contro l'inesorabile ruggine di tempo che passa, troppa pioggia e troppo sale sulle strade ghiacciate perforano e si infiltrano nella lamiera, tentacoli così esteticamente affascinanti quanto disastrosamente dannosi. un pascoli mi rimbomba in testa con la sua digitale purpureamente attraente nella sua seduzione assassina. e fosse solo una metafora e non il riflesso di troppi attirati come allodole da uno specchio di stagnola. ma è troppo facile addossare ogni colpa a vegetali inermi, illusi di allontanarci producendo intrugli assuefanti. perchè brividi di freddo e angoscia che mi perfora, esofago che trema teso, sale caldo di lacrime asciutte disegna le mie occhiaie di triste incapace a lasciarsi in balia della brezza dalla portata aleatoria. Perchè è ora di andare, l'ho capito e spero che non sia troppo tardi, ma già mi basta per farmi sorridere, insidioso meccanismo perverso.

domenica 24 aprile 2011

la notte prima di pasqua


solitario dolce pedalare lungo pozzanghere specchio di luci e festa
bottiglie vuote e canti stonati a ogni angolo di strada ormai deserta
melodie di balli catalani con fisarmoniche e cornamuse non accordate escono dalle tende termoisolanti di furgoni amenagés, in accordo con le note lontane di un salone da festa sbarrato da un pedaggio di contribuzione. una zuppa cinese in un sacchetto insipido mi scalda il cuore e i piedi raffreddati da una giornata di pioggia senza aver conosciuto nessuno (già, perfino i modena potrebbero suonare in questo festival di dred e ampie gonne). frasi come i miei giri insensati su una bicicletta sempre quasi riparata che non vuole rientrare, che non vuole andare al punto, quoi. paura di uscire per temere di tornare cosi' come so che sarei rientrata. nemmeno un goccio ad alterare la tristezza, nemmeno niente a modificare il quadro già sfumato di una notte di primavera umida e fresca, con le bandierine colorate appese tra le case e le foglie del fico che imbrigliano filagginose un inutile divieto di sosta. vecchie melodie falsamente irlandesi mi tormentano, anche se le immagini che posso pensare di abbinare a quei testi melanconici non sono più le stesse di quelle che immaginavo sentendo un cd rigato in un agosto uggioso.

domenica 17 aprile 2011

inutile filologia autour d'un malaise


di phylum strettamente imparentato eppure così ricche di strumenti altamente differenziati per esprimere, dunque, sentimenti diversi. non voglio dar a tutti i costi ragione a sapir e whorf (che pur m'ispirano simpatia), ma in un apparato cognitivo che si perde tra similitudini e differenze tra due lingue dalle radici condivise, scopro attrezzi che mancano ed altri che abbondano nella mia assai disorganizzata boite à outils (e fosse solo una metafora...). un innegabile malessere diventa malaise quando attraversa le alpi. non esiste il mal-etre, l'essere male, torturati dai pensieri che infestano con ragnatele pesanti e invischiose, semplicemente ci si limita a non essere a proprio agio. un eufemismo crudele, gusto di cresson d'eau che infesta narici e palato, mal di testa che pulsa come un velo opaco sulla realtà che scorre. o forse, nemmeno su questo posso vantare certezze, distrutte da un dizionario online freddo e appuntito.

lunedì 21 febbraio 2011

aspettando la teiera fischiare - aspettando il fischio della teiera

from...

inutile tentare un insipido parafrasare di metalibri troppo ben scritti, io che nemmeno riesco a fissare disgusto e incertezza per più di un giorno stanco e intristito dall'assenza di azione.
rendendo troppo ambigui i confini semantici da non saper più riconoscere una teiera da un metallico bollitore, ma in una ventata di manicheismo viscido (che nulla ha da vedere con il conflitto immanente di un celebre discepolo di Hegel) riesco perfino troppo a capire certi discorsi che ancora mi rimbombano nelle orecchie. e mi sveglio e lavo i piatti senza che non mi venga nemmeno più da sboccare. mi sveglio e faccio colazione, la bella abitudine di un caffettino (che non rima con niente se non oblio di quando non era solitudine), un sano yoghurt bianco acido ma cremoso ed un frutto succoso, aspettando il thè e i cinorrodonti che decuociono. mi sveglio e scendo a gettare il pattume, inviando un rapido sguardo alla porta del panettiere per risalire con un ingrato regalo di pane burro e cioccolato. e sotto le viscere di acciaio di un vecchio furgoncino tanto bello (nella mia retorica autoconsolante) mi chiedo perchè non ci sia nessuno attorno, se non squallidi vecchietti sdentati che passano guardando di traverso il grasso sulle dita e la faccia, non c'è nessuno se non qualche scout che si ripete "ecco cosa non si deve fare" guardando un mercedes scassato con i cccp che urlano dalle casse prive di bassi. ancora una volta mi stupisco di quanto mi faccia male l'ennesima sbucciatura alle sinapsi, graffiate da quello che potrebbe essere. o quello che vorrei fosse? o quello che è stato e rivorrei? cerco di inventarmi scuse plausibili a me e agli altri, di costruirmi una faccia, come goffman immagina giocando con l'argilla della costruzione sociale. e ne frattempo scrivo post privi pure della fiducia del non trovare un punto d'inversione. televisione e consolles echeggiano tiranniche davanti agli occhi e le orecchie che vorrei cotonate o molto più semplicemente impegnati a condividere rumori assordantemente goderecci e immagini di gioia piacere e distruzione. mi ritrovo persino imprigionata nelle note della paranoia ossessiva e rabbiosa, senza rendermi conto di come le avessi abbandonate.
e aspetto, aspetto ma mi sembra che sto bollitore fischi sempre al momento sbagliato.

to...

giovedì 6 gennaio 2011

putain de redescente


dopata dal vivere collettivo, dall'eliminare confini sulle carte, nelle menti e nei corpi affaticati drogati e sorridenti, dal mandare a fanculo, tutte in una volta e senza nemmeno pensarci, le norme e convenzioni di questa società di merda mi ritrovo in un down cauchmardesco di alloggi gabbie per conigli, frustante frastuono di auto su uno schermo, di vaisselle sporca ed impilata in instabili torri, nell'ipocrisia dei migliori auguri di sto cazzo, nell'assenza dell'unica cosa che mi ci ha invischiato in questo palazzo parcellizzato ed isolato da doppi vetri ammuffiti. soffro di rabbia anche nei sogni, scagliando bicchieri di vino che partono in frantumi e da sveglia conservo i nervi come i raggi di una bicicletta sul punto di rompersi (avrei dovuto girare di 1/4 di giro a sinistra...). è terribile questa redescente nella pioggia grigia di questo paese angusto, è terribile sentirsi scivolare in una realtà, angosciata di vederla trasformarsi in una quelle parentesi che si aprono ma poi ci si dimentica di chiudere, partiti su un altra delirante proposizione. vita scandita quotidianamente, ritrovandomi grottescamente a ripetere ad alta voce unicamente quelle scenette false che si trovano sulle methodes di lingue straniere. Bonjour je voudrais une baguette, e via dicendo, con il camambert e le altre menate. e rincorro pure un regalo su una bici cigolante di tappa in tappa, senza mai approdare a niente, come un film di monicelli. mi illudo che possa cambiare qualcosa intrappolata in una rete che il giovedì, il venerdì e pure il martedì non posso che lavoro. scalpito sottopelle per accumulare kilometri, ma soprattutto storie de ouf, facce, sensazioni, orizzonti all'alba su un ponte gotico, ordinaria follia.