lunedì 18 maggio 2009

confidenze ubriache: chui une pedée avortée

alla cornetta azzurra di una cabina ormai non più fredda, capisco che posso essere felice anche così. "et ça fait trops longtemps que je ne suis pas tombée amoureuse" e mi chiedo fino a quanto vale la pena di soffrire per una lontananza.
di fronte ad un ordi, mentre le nuvole ingannano l'alba e non sono nemmeno le sei e non so se ho sonno a sufficienza per dormire. insidioso infido mal di stomaco, ad irrigidirmi ulteriormente in una sala concerti in delirio, ricordando la betise di un doppio vodkalemon troppo freddo. ma qui ça va, non cerco nemmeno chi potrebbe tagliarmi privandomi di uno sguardo, troppo poco alcool per -non- pensarci. e lenzuola viola di un cassonetto, un mercato di frutta, spezie e ferraglia, le poubelles di un quartiere di platani ed eglise, un rayon di solei obliquo a sufficienza per attraversare il vetro spesso di una canette vide. una monsignore ed ecco di cui acquistare una brise marina (ah, il francesismo mi inganna: et voila de quoi acheter), un carrello al centro della strada. il freddo inatteso di una serata di maggio, a stento credo che una sola settimana è trascorsa dal mare dal vento dallo speed e dall'alcol, dai sessantanove e leisopraluisotto. mi programmo un viaggio immaginario, di treni e sorprese, storie e racconti giusto prima dell'ultimo verre (mica perchè si vuole smettere, ma le bottiglie si svuotano come bidoni al sole). troppo lucida

giovedì 14 maggio 2009

le parole di un libro dalla copertina viola e dal courier new sulle pagine spesse bastano per crearmi dubbi ed incertezze, già fomentate da una distanza più lontana di due ore di viaggio. senza rendermi conto ho firmato un contratto morale almeno per tre anni al minimo di amicizia e vita insieme. insieme acchi? cercando un'espressione più adatta, legami di carta e burocrazia. e pensare che non l'avrei mai detto (o almeno, non cosi). comprando piatti e piattini, bol e tazzine vedo delle sbarre alle finestre (e se anche fossero tendine dai fiocchetti colorati non cambierebbe nulla) eppure riconducono alla normalità di avere un indirizzo su un documento d'identità (che, ti sembro senza fissa dimora, io?!) e magari poter (immaginare di) invitare i parents a cena. guardare gli occhi nocciola di uno sfizzero tedesco, tornare in bici ubriaca, gettarmi nel pogo sul firenze harddeccore, zuppe che profumano di cumino e coriandolo che cedono al pestello, gramigna e papaveri (ma dov'è il pavot?), lattuga selvaggia e finochietto selvatico, profumo di gelsomino nell'aria e nel te', un'ape su un ippocastano ed un fiore di acacia insipido, addormentarmi sotto un tiglio che diventa ombrellone a strisce, la pelle scurisce quando non brucia sotto il cielo sempre più blu vs qualche metro quadrato a navigare su internet "et puis je fume". e quando si tratta di attacchinare o fare qualche scritta posso stare sicura che non è con me, ad attendere, finite le dieci locandine del cazzo, attorno ad un focolare freddo. eppure, mi basta fare l'amore per scrollarmi di dosso tristezza e sensazione di non fare nulla insieme, mi accontento di una voce al telefono per non crederci distanti. e, come l'anno scorso, non serve a nulla abitare la stessa casa, guardando i fichi maturare e le rose fiorire senza nessuno per fare colazione con il succo d'arancia e le fragole rosse. ed arrivo a mettere in dubbio il mio istinto lapalissiano di gettarmi in piazza al sentire la parola flic perchè chi ho accanto nel letto non riesce a capire cosa succede senza svegliarsi (e mi fa male, mi faccio male: perchè ci piace farci male). eppure, vado all'asia market, penso a noailles e les puces cercando casseruole e cafettiere, teiere e forchette perchè possano essere condivise senza paura che vengano gettate sull'igpn alle sei di mattina. perchè io (forse) non ho bisogno di te, ma mi sento meglio quando sei con me (e dire che capita più spesso che io sia con te...).

lunedì 11 maggio 2009

filosofia tossica





trapiantando le piantine di basilico nate troppo strette in un vasetto industriale, sotto il sole velato di un maggio caldo, lascio andare la mia mente, mentre le mie mani si riempiono di terra argillosa e tiepida. ho ancora nelle narici il profumo forte dell'origano selvatico che l'odore di pesto di una foglia di basilico accartocciata mi rimanda al piacere del cibo. e come una mela che cade dall'alto, un braccio che galleggia in un bassin d'acqua, finalmente capisco. quando avevo sedici anni e sui banchi di scuola un professore dai capelli bianchi e gli occhi glaciali ci spiegava con il suo forte accento piemontese in che cosa consistesse l'atarassia epicurea, non potevo far altro che ripetere il concetto, senza riuscire in fondo a comprendere come il piacere potesse venire dall'assenza di desiderio. e anche quando fu il turno della prof di latino presentare Lucrezio ed Orazio, non ebbi nessun problema a vedere nel de rerum natura e nel carpe diem il rifiuto per una società basata sul dovere e la negazione del piacere, la critica radicale della religione, un no future antelitteram. ma ancora il concetto di atarassia aveva un che di paradossale. e in un orto che si pretende biologico (e de toute façon non avrei la thune per dei diserbanti e pesticidi bayer) ho ripensato a questi giorni di (ab)usi (inspiegabilemente per certe sostanze esiste unicamente l'(ab)uso e non l'utilizzo dal momento che nella società repressiva codificata dalla lingua l'uso è uguale a zero, c'est à dire, se u = 0, u =/ 1, 1= a) ed infine ho compreso. galleggiante nell'allucinata lucidità, ho capito come il ben-essere possa venire dal non aver nemmeno bisogno del super tabulé, dell'ottima pasta fatta in casa o delle lasagne maison. sono golosa, immelmata dal girone di coloro che sono immersi nel fango e parlano a dante, ma posso stare magnificamente bene quando il bisogno/desiderio del cibo, ad esempio, mi abbandona. il desiderio di cibarmi (e il piacere di farlo bene) non è altro che una maschera ad una necessità vincolante per tenersi in vita (e pensare che non riuscivo a comprendere cafè quando descriveva in questo modo l'atto di mangiare). e quando viene meno, sto bene, in una bolla in cui non ho bisogno di nulla. sicuramente epicuro non poteva conoscere gli effetti delle droghe sintetiche, ma con altrettanta certezza si potrebbe affermare che conoscesse sostanze psicotrope naturali capaci di indebolire la sensazione di fame (più che indebolire direi quasi abolire), facendo fluttuare la testa in un'anestetica atarassia (d'ailleur, più atarassica di un'anestesia cosa c'è?). mi piacerebbe dunque poter riprendere sotto mano i tomi del mio libro di filosofia (ormai passato nelle mani dei miei fratelli e chissa dove), per poter immaginare epicuro en train d'écrire dopo essersi fumato una stagnola (d'accordo, d'accordo, la carta alluminio non doveva esistere). ma a tutto questo c'è un limite. una grande eccezione che forse non conferma la regola. se, ad esempio, un po' di speed può far completamente sparire la sensazione di fame (e dunque il piacere di mangiare, dal momento che ci ho pure provato ad forzarmi nell'assaggiare una microscopica parte di tagliatella fatta in casa dicendomi devesseretroppobuona, ma la forzatura era ben maggiore del piacere) come porsi nei confronti del sesso? ovvio che, sboccando per aver preso dell'oppio non pensi molto a come metterti perchè la penetrazione sia il più possibile profonda, ma con dell'md e certe alchimie di anfe, le sensazioni di uno sfregamento clitorideo vengono ancor più amplificate, scuotendoti in un'onda di piacere decisamente difficile da descrivere (e del resto, per rimanere in tema, c'è chi paragona ad uno shoot di ero). quindi in realtà, se l'atarassia può essere la defonce (termine gergale francese difficile da rendere in italiano, una sorta di fusaggine, sballo, il garzanti dice "effetto della droga" e forse non sbaglia, anche se droga è un po' generico) est-ce que è maggiore il piacere del non dovere o il piacere nel gustare? pur non potendo rinunciare da lucida o con alcune sostanze (si veda in particolar modo alcool e thc) al desiderio di un raviolo al nero di seppia ripieno di salmone, orata, aneth, persil e basilique, direi che per la bouffe, beh, preferisco il non mangiare. per dormire, ovviamento preferisco il restare ben sveglia e reattiva, camminando dopo una notte insonne sulle rocce incatramate alla ricerca della spiaggia perfetta che non esiste (l'eccitazione delle volte ammène alla wanderung, ovvio che gli speedanti sotto questo punto di vista forse non aiutano, anche se alla fine non c'è bisogno di cercarli i modi in cui dissipare energia). ma pour la baise, beh, devo dire che preferisco le sostanze che non anneantiscono la libido, trovando l'atarassia negli istanti che seguono un orgasmo violento (che del resto, sballa!). ma resta altrettando ovvio che nella buia ricerca di un amante senza esito positivo (e la tristezza inquieta di qualche anno fa ne può essere testimone) il solo modo di raggiungere l'atarassia senza bisogno di nessuno sia sopprimere anche quel desiderio che nella sua sola realizzazione appare l'essenza stessa del piacere (tanto quanto, ricevere un due di picche non lo è per niente). ed ecco quindi perchè è nell'atarassia che epicuro vede il vero piacere. perchè non si ha bisogno di nulla avendo già tutto. ma quando la boullette finisce?

prezzemolo e caffè

guardo l'orologio appeso ai muri freschi di una vecchia cucina, stupita dal vederne inabitualmente le lancette non oltrepassare mezzogiorno. non è un piccione sperso a svegliarmi, non è nemmeno un frollon intrappolato dietro al finestra a non lasciarmi dormire: lo sbattere di ali ed il tubare agitato non è nulla contro il desiderio e la voglia, l'eccitazione alla ricerca di una via di uscita non ha nulla da invidiare a quella causata dal mio sangue drogato. e mi alzo alle sette, le ombre lunghe di un mattino che comincia, i papaveri nella gramigna (e perchè un coqlicot non è del pavot? sperare nella metamorfosi di foglie di lattuga), il gelsomino si colora di giallo al nostro passaggio,j'ai falli partir, seduta su un furgone dalla carrozzeria corrosa dalla salsedine e inoccuranza. il cielo è azzurro, altrimenti nemmeno mi sarei alzata, intrappolandolo tra baci e carezze, gemiti e piacere. e non mi stupisce la mia incapacità a legarmi al polso lo scorrere del tempo (ma in ogni cucina alzo lo sguardo), ça m'étonne pas di oppormi alle teorie evoluzioniste, nell'antropologia come nella vita delle volte due giorni sono più lunghi di due settimane, senza nessun rapporto di necessaria linearità dell'evoluzione e del tempo. ed è un'ondeggiante piacevole lucidità (come la lucidità possa essere fluttuante come un'allucinazione occorre chiederlo a chi ha sintetizzato) a riempirmi gli occhi e le gambe mai stanche, la bocca un po' asciutta ma non abbastanza secca per non leccarci e sbavarci vicendevolmente piacere ed orgasmi. ritmi africani e rap di bamako accompagnano il viaggio, lungo la superstrada mare, raffinerie e rocce bianche e sembra strano di finire su un letto con tanto di doghe (e non sono pallet ma proprio liste di legno) a provare a rimbalzare sul materasso, in qualche metro quadro dove non so se vivere o no. lungo le colline di chaine vert e castagni, una pista dissestata ed un mare di mercos, ed è un chapiton rouge e noire a fare da sfondo dal vino bianco che sale e facce quasi dimenticate che si ricordano di me, ballando abbracciate. e finisco a fare l'amore senza coscienza, intrappolata dal piacere sotto le coperte, con una scarpa ancora allacciata ed un piede nudo intrecciato. l'alba si legge sulle facce dechirées, il nero che cola dagli occhi e sulle mani, gli occhi dalle pupille milleforme, la voce impastata o senza decibel. alla ricerca di una caffè grappa o di una trace per iniziare una giornata che non è ancora finita. i cani ed i dreads ad impastarsi con il fango, gli accordeons e la tecno, i biscotti ed il the corretto vodka. e si riprende la strada, mangiando fiori di acacia ed una mela, polipo e sardine in scatola, mozzarella versata sul finestrino. il sole del pomeriggio ad illuminare la linea tratteggiata nell'asfalto caldo, la ginestra ed i fiori viola sul bordo del goudron a sfilare veloci acconto al petrolio ed al mare. ed un giardino con gente e divani con la mousse che esce, bloody mary e, su un tavolo, carta di credito e paille tolgono la dipendenza dal cibo e dal sonno, senza parlare troppo questa volta, ma energia a sufficienza per lasciarsi andare nel pogo e nella danza frenetica. dietro un bar saldato con amore ed attenzione (i riflessi della scintilla ancora nella coda dell'occhio), a servire punch e birre premier prix e a continuare ad aspirare da un cd. la tenerezza e la douceur mi colgono all' improvviso, dopo aver lasciato sulla lavagna un messaggio di gesso bianco, i semafori che brillano ed i catarinfrangenti che luccicano nel tepore di una notte che non è ancora estate. e le case si rimpiccioliscono, roccia e colline prima di arrivare al mare ventoso e troppo fresco per non gettarsi ancora una volta in un melange di corpi e sensazioni amplificate dalle anfe. e intanto il cielo si schiarisce, dietro le isole di calcare e bianco, la linea sorprendentemente dritta delle onde. e vagare in quello che non è un piccolo villaggio di pescatori (ma lo sembra) alla ricerca di una spiaggia senza ombra di randonneur della domenica e detriti di un passato industriale. e ritornare, senza ancora fame ma quasi voglia di dormire (anche se è più la stanchezza che la voglia di chiudere gli occhi a farsi sentire), parlando sui gradini sotto un cielo grigio blu, con due baguettes calde e qualche pain o chocolat per chi si sveglia (e non come noi, al massimo si è eccitato sui sedili di un'auto in faccia ad un mediterraneo cangiante). e cercare di dormire, ma ricadere nella lussuria, spelando qualche zucchina e, quando la fame risale, preparare un gratin pestando le spezie e raccogliendo le erbe (cumino e ginepro, coriandolo, rosmarino e peperoncino, aglio, origano e finocchietto). addormentarsi davanti ad un film in bianco e nero, con l'eco dell'accento prolo parigino nelle orecchie e svegliarsi con un cellulare senza voglia di dividersi (e sono io questa volta che resto), e, senza aver capito la condanna della distanza, mangio una piccola fragola bitorzoluta che spunta da un vaso in giardino (ma non è per questo chesto qui, pur senza averlo mai vissuto, un appartamento a due fa più recinto che nido d'amore, voglia di gridare tra i granelli di sabbia ed i muri taggati di una casa occupata).